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Sezione: Saggi
Data di pubblicazione: 22-12-2025

Il museo nell’era digitale: tecnologie sensibili per una umanità aumentata

Autori

Il museo contemporaneo è chiamato a confrontarsi con un pubblico sempre più digitalizzato, ma anche sempre più eterogeneo per età, competenze e aspettative. Questo articolo esplora il ruolo delle tecnologie digitali nei processi di narrazione museale, evidenziando l’importanza di un approccio critico e consapevole, mai invasivo e centrato sull’esperienza del visitatore. Attraverso alcuni casi esemplari – M9 di Mestre, il Museo Laboratorio della Mente, il Piccolo museo del diario, il progetto in realtà aumentata di NuvolaProject – si mostra come il digitale possa rendere visibile l’invisibile, generando esperienze più o meno empatiche e accessibili, senza sostituire ma integrando l’apparato museologico tradizionale. Il museo riafferma il suo ruolo quale luogo di relazione, immaginazione e consapevolezza, in cui la presenza delle tecnologie digitali può coniugare autorevolezza scientifica e sensibilità narrativa. Si propone infine un uso attento e sostenibile delle tecnologie, orientato a un ecosistema museale più aperto, accessibile e profondamente umano.

Premessa

Così come il digitale ha modificato in modo irreversibile le nostre vite, creando una ibridazione nella quale l’analogico e l’online coesistono in maniera fluida e si integrano senza soluzione di continuità nella nostra esistenza quotidiana, anche il mondo dei musei, che ha sempre assorbito le istanze del presente, è stato inevitabilmente investito da questa rivoluzione “on life”.

Anche se l’accoglimento delle tecnologie nei musei non è sempre stato al passo della loro velocissima evoluzione – spesso a causa di difficoltà oggettive legate alle contingenze ma anche per una naturale resistenza timorosa di snaturarne l’essenza originaria – il digitale ha espanso il concetto di museo ben oltre i suoi perimetri fisici. Il digitale ha contribuito a superare i confini dell’esperienza culturale museale, che non si limita più al tempo della visita ma coinvolge la persona prima, durante e dopo di essa ad un grado molto più alto rispetto al passato.

Come ben racconta Nicolette Mandarano nel suo recente e brillante volume Il digitale per i musei1, dalla prenotazione online del biglietto d’ingresso all’uso dei social media, dai contenuti di approfondimento sul sito web fino alle app e ai podcast, le tecnologie digitali permeano ogni aspetto della vita museale, investendo la conservazione, la catalogazione e l’archiviazione, la valorizzazione, la comunicazione e la fruizione del suo patrimonio, sia esso tangibile o intangibile. Questo articolo si concentrerà, tuttavia, esclusivamente sulla presenza delle tecnologie digitali nello spazio fisico del museo, analizzando come esse possano facilitare e arricchire l’esperienza della visita a condizione di un loro uso non incontrollato ma piuttosto accorto. Non saranno presi in considerazione, in questa sede, i siti e i parchi archeologici, luoghi in cui l’applicazione delle tecnologie digitali può risultare particolarmente ampia e significativa, in particolar modo per la ricostruzione dei contesti originari, ma che richiedono riflessioni specifiche e differenti. L’intento di questo articolo è semplicemente quello di offrire un contributo alle riflessioni già in corso e formalizzate da altri studiosi ed esperti del settore2. Non si propone, naturalmente, come trattazione esaustiva – tanto per i limiti di spazio quanto per la vastità e la continua evoluzione della materia – ma come spunto ulteriore per approfondire un tema in rapida e costante trasformazione.

Oltre le parole d’ordine: tra abusi semantici e derive operative

Un museo contemporaneo deve essere multimediale, interattivo e innovativo. Deve, insomma, usare le tecnologie digitali. Un vero e proprio imperativo categorico, pare, dilagante da almeno un decennio, a partire da bandi e avvisi pubblici concepiti per destinare finanziamenti a grandi e piccoli musei purché le loro progettualità prevedano le tre caratteristiche sopracitate: multimedialità, interattività, innovazione.

Prima di addentrarci nello specifico di come queste istanze si siano tradotte concretamente nelle politiche museali e nei progetti realizzati, se è vero che – come ci insegnano i sociolinguisti – le parole formano il pensiero, vale la pena soffermarci proprio su queste tre, senz’altro abusate, che sono state spesso causa di fraintendimenti, di equivoche relazioni semantiche, nonché di conseguenze talvolta infauste nelle pratiche museali.

Cominciamo dalla parola “multimediale”. Si tende a dimenticare che anche il più tradizionale dei musei lo è: difficilmente viene alla mente un museo monomediale. Quando a un quadro appeso a una parete viene affiancato il classico cartellino con la didascalia pertinente, siamo già dinnanzi a due tipi di medium. Già in tempi antecedenti all’avvento del digitale, nella museografia ci si poneva la questione del decadimento dell’attenzione e della memoria in seguito a interferenze di stimoli da medium di varia natura. Fin dalle origini della storia del museo pubblico, infatti, il caso più comune è un disturbo di natura verbale e visivo: nelle sale espositive sono spesso compresenti messaggi verbali scritti (i testi), che vengono elaborati dai visitatori in modalità analitico-ricostruttiva, e messaggi visivi (le opere) elaborati anche in modalità senso-motoria. Impegnando così diversamente il cervello, può presentarsi il rischio che i due messaggi si escludano l’un con l’altro: si crea un’interferenza, per l’appunto, un corto circuito3. A volte il rischio è persino più alto, quando cioè ci si trova dinnanzi a quelle «compresenze invadenti» di cui parlava già Ragghianti, ovvero nel caso in cui persino le opere esposte “si disturbano” l’una con l’altra4. Quando a tale stratificazione di stimoli si aggiungono quelli digitali, è essenziale considerare questi presupposti per evitare che l’arricchimento si trasformi in sovraccarico percettivo o disorientamento esperienziale.

Cosa intendiamo, invece, esattamente con il termine “interattività”? Persone che interagiscono con le cose, o persone stimolate a interagire con altre persone attraverso le cose?

Quando guardo un dipinto, sono già immersa in un processo interattivo: l’opera agisce su di me, plasma il mio sguardo, orienta il mio pensiero. Allo stesso tempo, io attribuisco senso, attivo un percorso interpretativo, porto la mia esperienza dentro l’immagine. Si attua insomma una forma di reciprocità silenziosa ma intensa, che modifica entrambi i poli dell’incontro – se non nel piano fisico, almeno su quello percettivo ed energetico. Non è forse questa, già, una delle più alte forme di interazione? Eppure, nel contesto delle nuove tecnologie applicate ai musei, questa idea sembra non essere sufficiente. L’interazione “invisibile” o “intangibile” viene spesso trascurata a favore di un modello più immediato, calcolabile e – soprattutto – gratificante nel breve termine (nel lungo termine, chissà): schermi da toccare, sensori da attivare, meccanismi che producono un effetto visibile, misurabile, documentabile.

A dispetto della preziosa, romantica premessa di Krzysztof Pomian, secondo cui gli oggetti nei musei ci legano all’invisibile5, l’intangibile fatica a trovare spazio nell’orizzonte digitale dominante, che sembra preferire segnali chiari e feedback concreti, piuttosto che evocazione, riflessione, nutrimento dello spirito.

Passiamo all’ultima parola tra quelle da prendere in esame. Inseguire l’“innovazione” a tutti i costi rischia, talvolta, di appannare la possibilità di usare soluzioni comunicative, magari più semplici o già consolidate, che sarebbero assai più efficaci per gli scopi specifici di un museo. Quel che percepiamo come innovativo, del resto, non è mai una ideazione creata dal nulla: è sempre frutto di una intuizione che affonda le radici in pratiche, idee e conoscenze precedenti. L’innovazione non esiste, ha detto provocatoriamente qualcuno.

Allo stesso modo, anche la stessa espressione “nuove tecnologie” suona ormai obsoleta. Viviamo immersi in un ecosistema tecnologico tanto diffuso da risultare invisibile, quasi naturale. Scriviamo su tastiere invece che a mano, affidiamo la nostra memoria a fotografie digitali e social network, ci orientiamo grazie a navigatori satellitari, otteniamo notizie e contenuti tramite algoritmi, interagiamo quotidianamente con intelligenze artificiali in grado di rispondere ai nostri comandi vocali, di gestire dispositivi smart, di automatizzare la nostra quotidianità. Prendo quindi a prestito le parole di Luigi Di Corato che definiva il concetto stesso di “innovazione” e “nuove tecnologie” «una sorta di relitto dell’era pre-tecnologica retaggio di un analfabeta digitale che vede ancora qualcosa di esotico nel più comune tra gli ingredienti del presente»6.

Per questo, anziché finanziare i musei per l’acquisto tout court di tecnologie “innovative”, dunque, sarebbe di sicuro più sano sostenerne la ricerca e la progettazione consapevole.

L’obiettivo non dovrebbe essere “avere la tecnologia”, ma comprenderne il senso, integrarla con intelligenza – e lungimiranza – alle esigenze specifiche dei contenuti, dei contesti, dei pubblici. Riflettere su quali strumenti siano realmente necessari per raccontare in maniera significativa la propria identità, in modo site-specific e sense-specific.

Poi, solo dopo questo processo critico, magari, perché no: inventare qualcosa di nuovo.

Mostruosità museo(il)logiche: quando il mezzo diventa il fine

Come il sonno della ragione genera mostri, anche l’inseguimento cieco dei tre requisiti oggi così tanto richiesti – multimedialità, interattività, innovazione – ha prodotto, nel tempo, non poche mostruosità museo(il)logiche. Il problema non risiede tanto nella natura di queste tipologie di strumenti – che, appunto, dovrebbero essere considerati tali: strumenti, non obiettivi – quanto nella confusione concettuale che spesso li accompagna e nell’approccio acritico con cui vengono talvolta adottati.

Non sono rari i casi in cui musei, attratti dalla legittima possibilità di accedere a nuovi finanziamenti, hanno acquistato dispositivi tecnologici semplicemente perché un bando lo consentiva o richiedeva. Tuttavia, in alcuni casi per la fretta dettata da scadenze ravvicinate, in altri per la mancanza di personale adeguatamente formato o aggiornato, in altri ancora per l’assenza di una visione curatoriale, spesso tali attrezzature sono approdate al museo senza un progetto solido che assicurasse un felice matrimonio tra dispositivo e contenuto.

Il risultato? Tecnologie inutilizzate, talvolta rimaste inscatolate nei magazzini o, peggio ancora, in bell’esposizione lungo il percorso museale come installazioni silenziose perché… spente. Forse non è un caso che il primato in questa triste direzione, negli anni passati, sia spettato ai touch screen, una delle tecnologie più precocemente adottate dai musei, nonché tra le più longeve. Sarà forse proprio per la sua prima radice etimologica latina (digitus, dito)7 che il “digitale” ha trovato nel tocco il suo gesto simbolico più diffuso e riconoscibile. Eppure, se il touch screen ha avuto in passato un’aura di innovazione, oggi il suo potere suggestivo si è fortemente affievolito. È stato rapidamente assorbito nell’uso quotidiano, banalizzato e massificato da smartphone, tablet e altri dispositivi. In molti casi, più che “innovare”, il suo impiego rischia di replicare, senza alcun valore aggiunto, ciò che il visitatore già sperimenta quotidianamente fuori dal museo.

In definitiva, ciò che rende virtuoso l’uso della tecnologia non è la tecnologia in sé, ma l’elaborazione culturale e progettuale che la sostiene. È la visione curatoriale che conta: la capacità di pensare prima al senso, poi allo strumento.

Ricordare che la tecnologia è un mezzo, non un fine, significa rimettere al centro il contenuto, la visione e l’intenzione comunicativa, uniche vere bussole in grado di orientare l’esperienza museale verso una reale qualità e rilevanza.

Non bisogna, inoltre, avere paura di dichiarare da principio le difficoltà legate alla sostenibilità delle tecnologie utilizzate, così come riconoscere, in una data équipe museale, l’eventuale mancanza di competenze specifiche in organico per la gestione strategica del digitale, in modo da affrontare tali ostacoli già in fase di progettazione. Se si intende abbracciare l’ingresso della tecnologia digitale al museo, occorre infatti tener presente che tale processo richiede una pianificazione di medio e lungo periodo, che coinvolge risorse economiche e umane in uno spettro multidisciplinare.

Si segnala, in questa sede, l’ottimo lavoro di riflessione che sta conducendo di recente l’ICOM Learning Center, che invita periodicamente professioniste e professionisti di diversi ambiti culturali a confrontarsi sul tema, analizzando le barriere legate all’adozione delle tecnologie digitali nei musei, portando alla luce casi studio e proponendo soluzioni possibili8.

Tecnologia dominante e sovraccarico sensoriale: il caso del museo M9 a Mestre

Un caso significativo è rappresentato da M9, il Museo del Novecento inaugurato a Mestre nel 2018 con l’intento di conferire identità culturale a una città storicamente percepita come la terraferma “di servizio” rispetto all’inarrivabile Venezia.

Dopo una storia quasi ventennale di tentativi per avere un museo di Mestre, nel 2010 la Fondazione di Venezia ha indetto un concorso internazionale per una progettazione in un’area del centro cittadino rimasta a lungo preclusa alla cittadinanza. Ad aggiudicarsi la commissione è stato uno studio berlinese d’eccellenza, composto da architetti, designer, ingegneri e modellisti, con un progetto di rigenerazione urbana basato sull’integrazione tra nuove architetture e edifici restaurati, in un’ottica ecosostenibile e armonicamente inserita nel contesto urbano.

Nei primi due piani dell’edificio principale è ambientata la vera e propria esposizione che racconta in otto sezioni tematiche la storia politica, economica, sociale e culturale del Novecento italiano. Il percorso si snoda attraverso circa sessanta installazioni multimediali e interattive che includono diverse migliaia di documenti9. Un terzo piano è dedicato invece alle mostre temporanee.

«M9 appartiene a una nuova generazione di musei. Per la prima volta un museo racconta in modo avvincente il Novecento» si legge sulla homepage del sito10.

L’allestimento ipertecnologico, dichiaratamente immersivo e spettacolare – costato 9 milioni di euro, su un budget complessivo di 110 milioni – ha messo in campo tutte le strumentazioni più all’avanguardia allora a disposizione: dagli immancabili touch screen alle videoproiezioni, al videomapping, fino a realtà virtuale e realtà aumentata, 3D, teche olografiche, ambienti immersivi, gaming. Tuttavia, nonostante il sicuro rigore scientifico garantito dalla collaborazione con storici, sociologi, architetti e scrittori, l’impressione dominante è che, più che il contenuto, la vera protagonista dell’esperienza museale sia proprio la tecnologia: mai invisibile ma anzi assai esibita, finisce per invadere lo spazio e sovrastare la narrazione.

Basti osservare una fotografia delle sale principali, per rendersi conto che a emergere sono più i dispositivi che le storie (Fig. 1-2). Ciascun visitatore o visitatrice, entrando in questo ambiente buio, può cogliere con un unico sguardo l’elevato numero di postazioni da esplorare, venendo soverchiati da una moltitudine di sollecitazioni simultanee: un sovraccarico sensoriale (overload) che produce proprio quella competizione attentiva di stimoli sopracitata, che andrebbe rifuggita già in fase di design. Al “Wow-effect” iniziale si sostituisce presto il disorientamento da caos visivo e la sensazione di fatica nel dover affrontare il percorso nella sua interezza.

Figura 1. Museo M9, Mestre, Venezia: sala dedicata all’industrializzazione dell’Italia nel XX secolo (Foto Wikimedia Commons)

Figura 2. Museo M9, Mestre, Venezia: sala dedicata alla trasformazione del paesaggio italiano nel XX secolo (Foto Wikimedia Commons)

Ogni postazione richiede un tempo congruo per essere fruita a pieno e, in effetti, le misurazioni della soglia di sostenibilità sono state effettuate per ciascuna di esse. Per esempio, è noto che l’uso di un casco con visore VR solitamente non è raccomandato oltre i cinque minuti. Tuttavia, in un caso come quello di M9, il risultato di sostenibilità dell’intero allestimento è naturalmente maggiore della somma di tutte le parti. E, in un percorso distribuito su due piani, senza alcuna luce naturale né aria, ciò può comportare diversi disagi, senza considerare poi i casi particolari di persone con disabilità cognitive o bisogni specifici.

Se la città di Mestre auspicava la nascita di un centro culturale in grado di riflettere e rigenerare la propria identità, il risultato è stato invece un museo dedicato a un tema tanto vasto e generico – il Novecento italiano – da poter essere collocato ovunque, senza un legame evidente con il territorio.

Nonostante una campagna di comunicazione iniziale di grande impatto, se nel primo mese di apertura del museo si sono contati oltre 12.000 visitatori, nei mesi successivi la media è scesa a circa 7.000 biglietti venduti11. La pandemia del 2020 ha fatto il resto per portare quasi al collasso finanziario l’istituzione12, spingendola ad abbassare il costo del biglietto e a renderlo valido per l’intera giornata. Ad oggi, molti tra i visitatori che lasciano le recensioni su TripAdvisor apprezzano la possibilità di uscire a metà visita per fare una pausa, tra un piano e l’altro.

Nel 2021 il neodirettore Luca Molinari dichiarava in una intervista l’esigenza di «rigenerare […] la collezione permanente, in modo da mantenere la parte multimediale ma facendo coesistere anche una parte fisica» lamentando come «la narrazione era al servizio della tecnologia e non il contrario. Era scomparsa la narrazione ed era rimasta la tecnologia, il che è un paradosso»13. Il museo, oggi sotto la direzione di Serena Bertolucci, sta vivendo una fase di ripresa anche grazie alle mostre temporanee (molto meno tecnologiche) che fanno da satellite alla “collezione” digitale permanente, al coinvolgimento di numerose associazioni, alle molteplici attività per scuole e per famiglie e agli eventi di approfondimento14. Un segnale che evidenzia come nessuna tecnologia da sola possa sostituire il valore relazionale e che, senza un legame affettivo con una “comunità di patrimonio”, nessun museo può dirsi davvero radicato.

Tecnologie trasparenti e narrazioni partecipate: il caso del Museo Laboratorio della Mente

Il tempo del digitale è un parametro che scorre velocissimo, una nuova unità di misura inafferrabile con cui facciamo i conti nel nostro quotidiano. Alla lentezza di adattamento e di reazione tipica delle istituzioni museali si contrappone la velocità con cui le tecnologie vengono ideate, sviluppate e rilasciate. Queste si aggiornano e si rinnovano in tempi brevissimi, spesso nell’arco di pochi mesi, mentre i musei italiani, per consuetudine, modificano gli allestimenti solo dopo diversi decenni. A ciò si aggiunge una certa resistenza al cambiamento che investe persino gli apparati tradizionali a cui il museo è ancora fortemente ancorato: supporti grafici e didascalie sembrano spesso essere concepiti come immutabili e permanenti.

Laddove si investono risorse significative per dotarsi delle tecnologie più sofisticate e all’avanguardia, la parola “obsoleto” incombe come una spada di Damocle. Come dimostra il caso emblematico di M9, un allestimento fortemente tecnologico, sebbene inizialmente “innovativo”, può risultare rigido e un suo rinnovamento assai costoso.

L’unico vero antidoto a questa obsolescenza, lo ribadiamo, è fare in modo che la tecnologia non si trasformi mai nel soggetto protagonista della narrazione, ma resti sempre un mezzo discreto, al servizio del contenuto. In quest’ottica, i dispositivi devono rimanere trasparenti, ovvero integrati nello spazio museale senza imporsi visivamente, pur lasciando percepire chiaramente i loro effetti esperienziali.

A tal proposito, non si può non citare quello che probabilmente si configura come il punto di riferimento storicamente più importante in Italia, Studio Azzurro, che porta avanti questa visione come un vero e proprio vessillo, sia nella sua pratica ormai quarantennale sia a livello di teorizzazione15. Per il collettivo milanese, mettere in evidenza le conseguenze del dispositivo piuttosto che la tecnica stessa significa «non complicare tecnologicamente il banale», abbassare l’apparenza e il valore simbolico delle macchine a favore della temperatura sensibile dell’ambiente, così da creare una condizione di maggiore familiarità, alla portata dei più.

Ecco allora l’importanza delle cosiddette interfacce naturali: dispositivi interattivi che non richiedono la mediazione di protesi tecnologiche evidenti (visori, mouse, tastiere, bottoni…), ma si attivano con gesti spontanei, voci, sguardi, soffi, movimenti. Viene così a crearsi una condizione di maggiore naturalezza che non è frustrata da modalità non a tutti familiari. Questo approccio riduce il divario tra visitatore e strumento, attivando una dimensione comportamentale che trasforma il fruitore in co-autore del percorso museale, che a sua volta si espande al di là della forma e investe il campo della relazione.

La narrazione prende quindi una strada più evocativa che informativa, coinvolge la componente emotiva dei visitatori generando uno spazio aperto in cui ogni persona può costruire in modo attivo un’esperienza personale e partecipata, diversamente da una imposta dall’alto. Per altro, questi tipi di allestimenti, anziché una spiegazione lineare e organica, prediligono di solito una narrazione particellare dei linguaggi multimediali tali da attivare sensibilità diverse e da non imporre un unico punto di vista. L’accostamento di documenti originali, racconti orali, gesti, immagini, suoni, crea un’accumulazione di frammenti che possono essere intesi come unità mobili di una struttura aperta.

Un linguaggio, insomma, che rispecchia l’orizzontalità e la coralità della costruzione della conoscenza a cui ci ha abituati il web, regno dei contenuti generati dagli utenti, e dunque più in linea con le esigenze di un museo che voglia abbracciare le istanze della contemporaneità. Un habitat narrativo, per di più, che incoraggia la possibilità di esperire la visita insieme agli altri, in una dinamica relazionale non solo tra la persona e le cose ma anche tra le persone stesse in una forma di socialità collaborativa.

Esempio paradigmatico di questo approccio, tra i “musei di narrazione” concepiti da Studio Azzurro, è il Museo Laboratorio della Mente di Roma16.

Situato all’interno dell’ex manicomio di Santa Maria della Pietà, il Museo nasce come progetto della ASL Roma 1 con l’obiettivo di documentare la storia dell’istituzione manicomiale e di elaborare una costante riflessione sul paradigma salute/malattia, sull’alterità, l’inclusione, sulla politica delle cure e sul coinvolgimento della comunità. Il museo propone un percorso immersivo, multisensoriale e interattivo che stimola la riflessione sul concetto di normalità, identità e memoria collettiva. L’allestimento coinvolge il visitatore in una continua oscillazione tra elementi reali – la collezione scientifica, i dispositivi medici, i manufatti storici dell’ex manicomio, le voci degli internati, la raccolta di arte irregolare – e virtuali, stimolando la partecipazione attiva del pubblico.

L’utilizzo delle tecnologie, dalle videoinstallazioni alle interfacce tattili e sonore, è perfettamente integrato con gli ambienti originari e con i contenuti, in modo da coinvolgere emotivamente visitatrici e visitatori senza mai distrarli con l’apparato tecnico.

Chi visita il museo è chiamato a “fare esperienza” piuttosto che semplicemente osservare: può interagire con racconti orali, toccare oggetti, ascoltare voci, esplorare stanze in cui la narrazione prende corpo attraverso suggestioni visive, sonore e motorie (Fig. 3). È una visita che lascia il segno, perché non si limita a informare, ma invita a riflettere, a mettersi in relazione con l’altro da sé e con sé stessi.

Figura 3. Museo Laboratorio della Mente, Roma. Esempi di due postazioni attivate dalle posture e dai gesti dei visitatori (Foto Studio Azzurro, per gentile concessione)

In definitiva, il Museo Laboratorio della Mente incarna perfettamente quella museologia esperienziale e partecipativa che, pur facendo largo e sofisticato uso della tecnologia, la impiega con sobria delicatezza e profondità concettuale. Un approccio che apre la strada ad una modalità di fruizione culturale umana, dialogica e autentica.

Non è stato un caso aver scelto di raccontare, quale buona pratica, un museo inaugurato nel 2000: nonostante il Museo Laboratorio della Mente non si possa più dire giovanissimo, i segni di un suo invecchiamento sono davvero trascurabili. Al momento della scrittura di questo articolo, il museo è temporaneamente chiuso per i lavori di ristrutturazione del padiglione 6 e per l’ampliamento del percorso espositivo. La curiosità verso la sua riapertura è grande, soprattutto per scoprire come evolverà un progetto che, fin dalla sua nascita, ha saputo coniugare tecnologia digitale e sensibilità narrativa.

Verso un’esperienza empatica e aumentata dell’invisibile

Il museo, come ricordato in precedenza, è per eccellenza il luogo dell’invisibile: uno spazio in cui l’esperienza di coloro che lo frequentano si costruisce come una somma irripetibile e non lineare tra immediatezza, frammentazione, incontro con l’alterità, scoperta, riconoscimento (o disconoscimento), conoscenze pregresse, e il sistema delle proprie sfere sociali, culturali, affettive ed emotive, intrecciati con le narrazioni offerte.

Se il museo intende produrre un’esperienza davvero originale, al di fuori e in contrasto con l’omologazione imposta dalla mediatizzazione contemporanea, alla conoscenza deve affiancare anche l’immaginazione e l’emozione, attraverso un avvicinamento empatico con il contenuto-oggetto della sua narrazione. Rapportarsi all’invisibile significa quindi che oggi non è più sufficiente mostrare i cocci di un’anfora: è necessario far immaginare i gesti che l’hanno prodotta, utilizzata, e le vicende di cui è stata testimone.

È proprio in questa direzione che l’applicazione tecnologica può intervenire e, se orientata nel modo giusto, giocare un ruolo fondamentale generando «un significativo metalivello: un campo esperienziale in cui puoi provare, scoprire, modificare questi linguaggi tecnologici in una pratica non fine a sé stessa»17.

Un esempio particolarmente virtuoso è rappresentato da uno dei più recenti lavori del collettivo NuvolaProject, fondato da Gaia Riposati e Massimo Di Leo, specializzato in performing media e nella relazione tra fisico e digitale, tra le intelligenze umane e quelle artificiali.

In occasione della mostra “Antonio Donghi. La magia del silenzio” esposta a Palazzo Merulana18, è stato presentato in anteprima il loro progetto artistico “Imaginaria” che ha animato in realtà aumentata alcuni dei quadri più iconici di Donghi, oltre ad altre opere di artisti italiani della prima metà del Novecento facenti parte della collezione permanente del museo. L’iniziativa non è rimasta un evento temporaneo: Palazzo Merulana ha scelto di integrare stabilmente l’esperienza nel percorso museale, compiendo così un passo strutturale e significativo verso una fruizione aumentata e dialogica dell’arte, che pone in relazione materia e immaterialità. Attraverso la tecnologia AR (realtà aumentata), le opere inquadrate attraverso un’applicazione – che i visitatori possono scaricare dai propri dispositivi mobili – prendono vita e performano in una vera e propria drammaturgia a cui gli autori hanno lavorato con la consulenza scientifica degli storici dell’arte del museo. Il pubblico non riceve soltanto contenuti visivi e vocali aggiuntivi ma viene invitato a interagire con l’opera esplorando lo spazio e scoprendo micro-narrazioni legate ai personaggi rappresentati, all’autore, e al clima storico-culturale del tempo. Per di più, ogni esplorazione prevede una versione recitata da Gaia Riposati in italiano, interpretata da una attrice segnante in lingua italiana dei segni (LIS), e una recitata in inglese con l’interpretazione di una attrice segnante nella lingua internazionale dei segni, garantendo anche piena accessibilità alle persone sorde (Fig. 4). Ponendo attenzione anche nella direzione dell’inclusione, l’esperienza di visita viene in questo modo “aumentata”, attraverso il potere suggestivo dell’evocazione poetica e della meraviglia. La tecnologia digitale non distrae quindi dall’opera d’arte, al contrario consente di instaurare un rapporto di intimità e prossimità con il contenuto, sempre rispettandone l’aura e la filologia, per altro in dialogo con altre opere vicine e dunque in armonia con lo spazio allestitivo e la visione curatoriale. Quando il dispositivo viene spento e riposto, lo sguardo del visitatore sull’opera risulta certamente rinnovato. Lo scopo è quello di offrire un’esperienza culturale non residuale, come invece spesso accade, ma di un livello più approfondito, consapevole, intenso e gratificante.

Figura 4. Il progetto “Imaginaria” di NuvolaProject a Palazzo Merulana, Roma: Realtà aumentata su Gita in barca di Antonio Donghi, con attrice segnante che interpreta la narrazione in lingua italiana dei segni

Un intento analogo anima anche il Piccolo museo del diario di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo19, che rappresenta un altro esempio virtuoso di museo capace di rendere visibile l’invisibile. Qui, un intenso percorso multisensoriale e interattivo è nato per raccontare l’Archivio Diaristico Nazionale e le preziose testimonianze autobiografiche che esso conserva. Il percorso museale conduce per mano il pubblico attraverso le scritture di persone comuni che hanno raccontato l’Italia attraverso memorie private, che da storie singole e personali sono diventate storie collettive e universali. In un museo la cui collezione è composta unicamente da parole scritte, solo la tecnologia poteva farsi strumento sensibile capace di dare voce, corpo e spazio all’intangibile densità delle storie custodite. L’intimità dei racconti autobiografici viene restituita al pubblico attraverso un allestimento multimediale, progettato dallo studio dotdotdot, che coinvolge profondamente i sensi e le emozioni. Le tecnologie non invadono mai lo spazio né sono spettacolarizzanti: strumenti narrativi al servizio della parola scritta, non sovrastano mai il potere evocativo delle parole, piuttosto lo rinforzano con una regia sensibile ed empatica. Aprendo cassetti, muovendo schedari d’archivio, avvicinandosi a oggetti, vengono evocati voci, luoghi, vissuti privati… il “fruscio degli altri”20 (Fig. 5). Anche in questo caso, l’uso accorto del digitale consente di accedere a un livello più intimo e partecipato della fruizione museale, in cui il racconto dell’altro diventa occasione per riflettere su se stessi, generando una forma di conoscenza tanto personale quanto universale. Uno dei musei più piccoli d’Italia, come recita con orgoglio programmatico il suo stesso nome, offre insomma una visione in grande: un’esperienza immersiva, profondamente umana, che lascia un segno difficile da dimenticare.

Figura 5. Piccolo museo del diario di Pieve Santo Stefano, i cassetti della memoria (Foto Wikimedia Commons)

Conclusioni: verso un museo digitale consapevole

Come possono i musei rispondere in modo significativo a un pubblico sempre più digitalizzato, dunque?21 Quel pubblico che è già abituato a leggere il mondo attraverso i propri dispositivi entra al museo portando con sé tecnologia e abitudini digitali, seppure con differenti gradi di alfabetizzazione tecnologica.

Gli sforzi di introduzione del digitale nei musei si concentrano spesso nel tentativo di intercettare un pubblico genericamente “giovane”, ma si trascura il fatto che la maggior parte dei visitatori attuali appartiene alla fascia over 50. Il digitale non parla ancora a tutti. Esiste ancora disparità nell’accesso e nell’utilizzo delle tecnologie digitali, un digital divide che richiede attenzione progettuale. Se da una parte la tecnologia apre indubbiamente molte porte sul fronte dell’accessibilità, dall’altra rischia di escludere chi non dispone degli strumenti, della formazione o della motivazione per utilizzarla. Il pubblico del museo, reale e potenziale, è numeroso e diversificato: è impossibile progettare un’esperienza sempre tailor made, così come lo era anche prima dell’avvento del digitale. Tuttavia, quante più possibilità si offrono, tanto più si costruisce un’esperienza culturale potenzialmente accessibile e democratica.

Il museo, in quanto luogo non solo di presentazione ma anche di interpretazione e rappresentazione, può trovare nel digitale un alleato versatile per offrire nuove chiavi di lettura, costruire significati e favorire relazioni. La rigidità delle narrazioni, il palinsesto fisso, le sale ordinatamente cronologiche sono da sempre parte delle sue ritualità. Il digitale ha il potenziale per scardinare almeno in parte tale immutabilità, aprendosi a punti di vista corali e plurali – maggiormente in linea con ciò che accade nelle nostre vite on life, dove la costruzione della conoscenza avviene attraverso processi sempre meno verticali e più partecipativi.

Se da una parte bisogna riconoscere che il sistema informativo tradizionale presenta dei limiti con cui far i conti22, come l’abitudine sempre meno sviluppata e diffusa a leggere testi lunghi, il digitale rappresenta una chiave in più nel mazzo che, almeno per il momento, non sostituisce completamente gli apparati museologici classici ma li implementa. C’è chi preferisce leggere la didascalia sulla parete, chi si lascia coinvolgere da un tavolo touchscreen, chi ama lasciarsi trasportare da una voce umana (che sia in persona, in audioguida o in ologramma…) e chi desidera una fruizione libera, priva di ogni mediazione didattica o interpretativa. È compito del museo garantire comunque un’autorevolezza scientifica radicata nell’expertise del suo staff, la cui preparazione e visione deve rimanere una risorsa non negoziabile.

Il digitale può – e deve – rientrare tra gli obiettivi che si prefigge la mission del museo, come risposta ai bisogni e alle domande del presente. Va tuttavia usato in modo consapevole: il museo deve praticare un consumo critico della tecnologia, saperla selezionare, persino rifiutarla quando non necessaria, progettando allestimenti a basso impatto e prevenendo l’e-waste. Solo così potrà contribuire a un ecosistema digitale pulito, aperto e rigenerativo23.

Il museo deve restare un luogo affidabile, dove, lo ribadiamo, si può incontrare l’altro da sé e ritrovare sé stessi. Questo processo richiede tempo, ascolto e profondità. È giusto, allora, che il museo continui a essere uno spazio del tempo lento, dove il sovraccarico informativo e il rumore tecnologico non trovano posto, al contrario di ciò che caratterizza la nostra vita on life.

Se vogliamo, e crediamo davvero, che il museo continui a essere un luogo di attraversamento consapevole, di sosta, riflessione, curiosità, approfondimento e spirito critico, dobbiamo progettare esperienze che offrano contenuti di valore, integrati con modalità di fruizione che vadano oltre lo scroll distratto dei nostri smartphone. Serve un’interazione che coinvolga il corpo, le emozioni, l’immaginazione: un incontro autentico e trasformativo con la cultura in senso ampio.

Il digitale, se impiegato con intelligenza e sensibilità, non è una minaccia, piuttosto un’opportunità: una voce in più, non l’unica. Un mezzo per rendere il museo più aperto, plurale e profondamente umano.

L’ultima consultazione dei siti web è avvenuta nel mese di dicembre 2025.

Riferimenti Bibliografici

Francesco Antinucci. Comunicare nel museo. Roma-Bari: Laterza, 2004.
Paola Castellucci — Elisabetta Gomelino. Chatbot. Un giorno, al museo. «DigItalia. Rivista del digitale nei beni culturali», 2 (2021), p. 9-24.
Maria Elena Colombo. Musei e cultura digitale. Fra narrativa, pratiche e testimonianze. Milano: Editrice Bibliografica, 2020.
Luigi Di Corato. Studio Azzurro ovvero del museo opera d’arte. In: Studio Azzurro, Musei di narrazione. Percorsi interattivi e affreschi multimediali, a cura di F. Cirifino, E. Giardina Papa e P. Rosa. Milano: Silvana Editoriale, 2011, p. 164-177.
Giuliano Gaia. Il museo immediato. Digitale per la cultura: da Arpanet all’intelligenza artificiale. Milano: Editrice Bibliografica, 2024.
Nicolette Mandarano. Il digitale per i musei. Comunicazione, fruizione, valorizzazione. Roma: Carocci Editore, 2024.
Gerry McGovern et al. Ecologia digitale. Per una tecnologia al servizio di persone, società e ambiente. Milano: Altraeconomia Editore, 2022.
Museo Laboratorio della Mente, a cura di UOS Centro Studi e Ricerche ASL Roma e Studio Azzurro. Milano: Silvana Editoriale, 2010.
Museo Laboratorio della Mente. Portatori di storie. Da vicino nessuno è normale, a cura di UOS Centro Studi e Ricerche ASL Roma e Studio Azzurro. Milano: Silvana Editoriale, 2012.
Krzysztof Pomian. Collezione e museo. Nascita di un’istituzione culturale. Milano: Electa, 1987. Edizione originale: Collectionneurs, amateurs et curieux. Parigi: Gallimard, 1987.
Carlo Ludovico Ragghianti. Arte, fare e vedere. Firenze: Vallecchi, 1974.
Studio Azzurro. Musei di narrazione. Percorsi interattivi e affreschi multimediali, a cura di F. Cirifino, E. Giardina Papa, e P. Rosa. Milano: Silvana Editoriale, 2011.

Note

  1. Nicolette Mandarano, Il digitale per i musei. Comunicazione, fruizione, valorizzazione, Roma: Carocci editore, 2024.
  2. Solo per citare le ultime pubblicazioni italiane più significative, oltre a N. Mandarano, Il digitale per i musei, (cit.), vale la pena di menzionare: Giuliano Gaia, Il museo immediato. Digitale per la cultura: da Arpanet all’intelligenza artificiale, Milano: Editrice Bibliografica, 2024; Maria Elena Colombo, Musei e cultura digitale. Fra narrativa, pratiche e testimonianze, Milano: Editrice Bibliografica, 2020. Si segnalano anche le ricerche tematiche ancora in corso di D\Tank, il think tank del Dipartimento di Design del Politecnico di Milano: <https://www.dtank-design.polimi.it/home-think-tank-del-dipartimento-di-design/digital-museums/>.
  3. Francesco Antinucci, Comunicare nel museo, Roma-Bari: Laterza, 2004, p. 141.
  4. Carlo L. Ragghianti. Arte, fare e vedere. Firenze: Vallecchi, 1974.
  5. Krzysztof Pomian, Collezione e museo. Nascita di un’istituzione culturale, Milano: Electa, 1987. In particolare, Pomian sostiene che gli oggetti nei musei «sono semiotici: visibili, ma collegati all’invisibile», nel senso che rimandano a un ordine simbolico, storico, culturale che non è immediatamente presente, ma che il museo rende percepibile attraverso la mediazione dell’oggetto. Il saggio esplora il concetto di collezione come fenomeno antropologico, sostenendo che gli oggetti raccolti nelle collezioni vivono sospesi tra il visibile e l’invisibile, poiché lo sguardo che li raggiunge non è solo quello del presente, ma anche quello del futuro. Esporre oggetti, in particolare nei musei, significa affidarli allo sguardo delle generazioni future.
  6. Luigi Di Corato, Studio Azzurro ovvero del museo opera d’arte, in: Studio Azzurro, Musei di narrazione. Percorsi interattivi e affreschi multimediali, a cura di F. Cirifino, E. Giardina Papa e P. Rosa, Milano: Silvana Editoriale, 2011, p. 164.
  7. Dal vocabolario Treccani online <https://www.treccani.it/vocabolario/digitale2/>: «agg. [dall’ingl. digital, der. di digit (dal lat. Digĭtus, dito), cifra (di un sistema di numerazione)]. In elettronica e in informatica, qualifica che, in contrapp. ad analogico, si dà ad apparecchi e dispositivi che trattano grandezze sotto forma numerica, cioè convertendo i loro valori in numeri di un conveniente sistema di numerazione […]».
  8. Vedi, in particolare, il tavolo tecnico “Inclusione e multichannel audience engagement”, tenutosi il 22 luglio 2024: <https://www.icom-italia.org/icom-learning-center-tavolo-tecnico-inclusione-e-multichannel-audience-engagement-report-disponibile/> e il webinar del 19 dicembre 2024, “Innovazione digitale e inclusione dei pubblici: pratiche e strategie di interazione per il patrimonio culturale”: <https://www.icom-italia.org/icom-learning-center-webinar-innovazione-digitale-e-inclusione-dei-pubblici-pratiche-e-strategie-di-interazione-per-il-patrimonio-culturale-19-dicembre-2024/>.
  9. Dalla pagina Wikipedia del museo <https://it.wikipedia.org/wiki/Museo_M9#cite_ref-16>: «circa 6.000 fotografie, 820 filmati montati in una videoproiezione complessiva di oltre dieci ore, 500 oggetti iconografici (manifesti, periodici, quotidiani e materiale grigio) e 400 file audio, provenienti da 150 archivi di interesse storico (tra cui Teche Rai, Istituto Luce, Fondazione Treccani, Centro Storico Fiat, Archivi Farabola, Fondazione archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Archivio storico dell’ENI e Fondazione FS Italiane)».
  10. https://www.m9museum.it/.
  11. Dati desunti da «Venezia Today», notizia del 3 gennaio 2019: Dodicimila visitatori nel primo mese di apertura di M9 a Mestre: <https://web.archive.org/web/20190701093642/http:/mestre.veneziatoday.it/m9-mese-visitatori-museo.html>; dal sito web del Comune di Venezia, 17 maggio 2019: Le commissioni comunali VI e IX al Museo M9: “Progetto fondamentale per tutto il territorio”, <https://live.comune.venezia.it/it/museo-m9-mestre-visita>.
  12. Massimiliano Zane, Riflessioni sulla crisi di M9, il museo del ‘900 di Mestre, «Artribune», 11 maggio 2020 <https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/politica-e-pubblica-amministrazione/2020/05/crisi-m9-museo-mestre-casa-dei-tre-oci-venezia/>.
  13. Giulia Ronchi, Cambia tutto al museo M9 di Mestre. Intervista al neodirettore Luca Molinari sulla programmazione, «Artribune», 16 dicembre 2021 <https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/2021/12/museo-m9-mestre-intervista-direttore-luca-molinari-programmazione/>.
  14. Vedi l’intervista Il bilancio di Bertolucci: in un anno diventati museo partecipato, pubblicata il 15 gennaio 2025 in «Il Gazettino Venezia Mestre», p. 27.
  15. Solo per citare un esempio tra la sua ricchissima bibliografia: Studio Azzurro, Musei di narrazione, cit.
  16. Museo Laboratorio della Mente, a cura di UOS Centro Studi e Ricerche ASL Roma e Studio Azzurro, Milano: SilvanaEditoriale, 2010; Museo Laboratorio della Mente. Portatori di storie. Da vicino nessuno è normale, a cura di UOS Centro Studi e Ricerche ASL Roma e Studio Azzurro, Milano: Silvana Editoriale, 2012, secondo catalogo dedicato all’allestimento “Portatori di storie”; <https://www.museodellamente.it/>.
  17. Studio Azzurro, Musei di narrazione, cit., p. 7.
  18. Mostra a cura di Fabio Benzi, Palazzo Merulana, Roma, 9 febbraio-20 ottobre 2024. <https://imaginaria.nuvolaproject.cloud/>; <https://www.art-usi.it/a-palazzo-merulana-le-opere-si-raccontano-in-realta-aumentata-e-con-la-lingua-dei-segni/?fbclid=IwAR3BPAB7HDWeFKVrBHkUef0iq5cOOfN3Vy-sZWj0yGLDk4hPRT6FtbGwipw>.
  19. https://www.piccolomuseodeldiario.it/.
  20. Con questa espressione poetica, Saverio Tutino, fondatore dell’Archivio Diaristico Nazionale nel 1984, amava definire le storie narrate in diari, epistolari, memorie autobiografiche, parole private, scritti di gente comune, oggi custoditi al Piccolo museo del diario.
  21. È la domanda corretta che si pone Giuliano Gaia nel corso dell’incontro-presentazione “Musei e digitale: buone pratiche, strumenti e nuovi orizzonti” tenutosi al Salone Internazionale del Libro di Torino il 16 maggio 2025, a cui hanno partecipato Christian Greco, Nicolette Mandarano ed Emanuela Totaro: <https://www.youtube.com/watch?v=WEFhDPoOPVA>.
  22. Cfr. le considerazioni di Paola Castellucci e Elisabetta Gomelino nell’articolo Chatbot. Un giorno, al museo, «DigItalia. Rivista del digitale nei beni culturali», 2 (2021), p. 9-24, <https://digitalia.cultura.gov.it/article/view/2879>, che affronta opportunità, limiti e scenari futuri possibili del chatbot declinato come guida virtuale, apprendimento ludico e aumento dell’esperienza di visita.
  23. Gerry McGovern et al. Ecologia digitale. Per una tecnologia al servizio di persone, società e ambiente, Milano: Altraeconomia Editore, 2022.

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Autori/Autrici

Claudia Pecoraro - Museologa e curatrice

Come citare

Pecoraro, C. (2025). Il museo nell’era digitale: tecnologie sensibili per una umanità aumentata. DigItalia, 20(2), 45–60. https://doi.org/10.36181/digitalia-00141
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Autori/Autrici

Claudia Pecoraro - Museologa e curatrice

Come citare

Pecoraro, C. (2025). Il museo nell’era digitale: tecnologie sensibili per una umanità aumentata. DigItalia, 20(2), 45–60. https://doi.org/10.36181/digitalia-00141
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